Inaugurata lo scorso 17 Dicembre, la mostra Anni ’70. Arte a Roma presenta oltre 200 opere di 100 autori italiani e internazionali raccolte nel nome di un decennio e di una città. Attraverso questo binomio – anni settanta e Roma – vuole dare testimonianza di una realtà vitalizzata dall’intreccio di linguaggi differenti, teatro di sperimentazioni, accogliente bacino di culture visive diverse. Una realtà specchio di quanto accadeva in un territorio internazionale assai più vasto e al tempo stesso portatrice di una sua propria identità
Con sempre maggiore chiarezza gli anni settanta del secolo scorso appaiono agli storici come una sorta di spartiacque. I processi di cambiamento avviati in quel periodo sono effettivamente all’origine dei comportamenti, dei fatti sociali e politici attuali ed è questo il motivo per il quale è ancora interessante indagarli e interrogarli. E’ stato un decennio controverso, generalmente identificato per i suoi conflitti, che potrebbe, invece, essere inteso come fertile e costruttivo. Nelle arti visive, soprattutto a Roma, si è distinto per una pluralità di linguaggi e attitudini i quali, al contrario di quello che generalmente si crede, hanno democraticamente convissuto e talvolta persino dialogato. La mostra, sulle basi della ricerca che l’ha preceduta, lo testimonierà con una posizione di bilanciamento tra ricerca storica e interpretazione.
L’importanza dell’arte a Roma negli anni settanta si deve soprattutto a un eccezionale novero di artisti: molti romani e quanti, non romani, scelsero Roma come loro residenza; molti stranieri che ripetutamente nel corso del decennio soggiornarono ed esposero a Roma. Saranno le loro opere le protagoniste assolute dell’intero percorso espositivo, tutte realizzate o mostrate negli anni settanta a Roma, provenienti da collezioni pubbliche e private, e in parte conservate dagli stessi artisti.
Si è scelto di configurare l’attuale mostra come vista d’insieme eleggendo come filo conduttore proprio la prassi del dialogo, del confronto dialettico, che può considerarsi l’esempio più alto tra quelli ereditati dagli anni settanta. Senza rinunciare, al tempo stesso a formulare un’ipotesi interpretativa, che non vuole essere esclusiva, ma che, al contrario, auspichiamo inviti altri al confronto dialettico.
Dalla fine degli anni cinquanta e nel corso del decennio successivo le poetiche performative, concettuali, minimaliste e dell’Arte Povera, sottoposero l’opera d’arte a un globale processo di “atomizzazione” (riservando un interesse assoluto agli aspetti particolari e contingenti), di “smaterializzazione” (secondo la felice definizione di Lucy Lippard) e di “fluidificazione” (concetto cardine della teoria di Germano Celant sull’Arte Povera). L’ipotesi è che gli stessi autori protagonisti di queste rivoluzioni linguistiche, all’inizio degli anni settanta abbiamo considerato l’opera d’arte nei termini che cerchiamo di cogliere associandoli all’idea di incarnato (un termine preso in prestito da Maurice Merleau-Ponty) e con il quale si suggerisce la compresenza di elementi di natura diversa configurati in un unico identico paesaggio. Come in un incarnato, le opere di Boetti, Paolini, Kounellis, Patella o dei più giovani Ontani, Spalletti, Cucchi, Clemente, Ceccobelli e di altri, e a differenza di opere di più stretta osservanza concettuale, abbracciano molteplici significati e si prestano a diverse interpretazioni ponendo ogni differenza nella condizione di dialogare all’interno di una stessa cornice. La cornice, essenzialmente, è l’immagine, quella sorta di formato convenzionale al cospetto del quale l’osservatore si pone in un rapporto frontale, paritario e dialettico. Oppure è il corpo di un’opera, pensiamo alle sculture di Fabro o di Penone realizzate reinterpretando tecniche tradizionali, autonome e durevoli.
Questa nuova attitudine e sensibilità riunisce artisti di generazioni diverse le cui opere assumono una configurazione non asseverativa (rimane in esse l’idea di opera aperta, di un lavoro che si interroga sul mondo), ma sicuramente costruttiva, capace di salvaguardare e trasmettere le conquiste del decennio precedente.
Se questa ipotesi ha una possibilità di essere riscontrata, Roma è il punto di osservazione ideale.
(in foto: Francesco Clemente, Autoritratto con vestito di Chanel, 1979)
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